Il tennis che ho giocato

Da piccolo ci giocavo con mio padre in camera da letto. Come potessimo starci, ora non riesco ad immaginarlo, dato che non ho mai avuto una camera più lunga di cinque metri. Mi ricordo che mio padre, per farmi ridere, quando mancava la pallina si metteva la racchetta di fronte alla faccia, come per cercare un buco che potesse giustificare il suo errore. E tenevamo i punti, e ci tenevo a vincere, come sempre. Poi, qualche anno dopo, alle elementari, vennero le giornate d’estate a casa dei miei zii. Al pomeriggio scendevamo, controllavamo che il parcheggio sul retro fosse libero, mio zio prendeva una prolunga di cavo elettrico e la tendeva tra due sedie in modo che tagliasse a metà il cortile. Il campo era delineato dai segni del parcheggio, in un modo abbastanza approssimativo, perché bisognava ragionare di fantasia, prolungando linee ed immaginando intersezioni. Ma non c’erano mai discussioni da questo punto di vista, il nostro problema non era mai dentro o fuori, ma piuttosto… sopra o sotto. Sì, perché il cavo segnava il livello della rete, ma sotto non c’era appunto la rete a fermare le palline troppo basse, e quindi bisognava intuire, interpretare, ricostruire a tavolino la traiettoria per stabilire a chi assegnare il punto. “Se l’hai colpita lì, ed è finita così corta, non può essere passata sopra…” “Ma no zio, l’ho presa più in alto…” “Vabbè rigiochiamo.” Ricordo che mio zio mi insegnava i rudimenti del tennis (ancora con palline di spugna e racchette di plastica, eh) e, data la sua formazione alla “vecchia scuola”, mi diceva di girarmi su un fianco o sull’altro per colpire; per questo forse tuttora non sopporto quei bimani che giocano il rovescio restando perfettamente frontali alla rete. Già allora ero più forte di dritto che di rovescio, ogni vincente tirato con il rovescio era un avvenimento.

Poi venne la prima racchetta “seria”, della Wilson, e le prime partite nei campi veri. (A proposito di racchetta seria, che delusione quando il maestro anni dopo la prese in mano alla prima lezione e disse “Con questa non ci fai niente.” “E allora, finora, cos’ho fatto?” pensai.) Giocavo contro i compagni di classe delle medie, ed erano partite terribili, come tutto è terribile a quell’età. Ciò che prevaleva era sempre la sensazione di essere lì a fare qualcosa, che prevaleva sul cosa, e sul come. Quasi sempre poi c’erano ragazze a giocare o a bordo campo, erano occasioni anche di socializzazione… insomma ricordo che persino io non badavo troppo al punteggio, mi godevo qualche bel dritto e sfogavo i miei brufoli. A differenza di quello che accadde un paio di volte nelle vacanze in Inghilterra, dove incontrai qualche ragazzo che sapeva giocare, o comunque aveva seguito lezioni, e allora mi impegnavo seriamente, per dimostrare di non essere da meno nonostante la mia formazione da autodidatta. Ricordo qualche vittoria che mi diede gioia, ma più in generale la sensazione che quello fosse uno sport per il quale fossi portato, per il quale avessi un briciolo di talento. I miei genitori mi proponevano spesso di fare un corso in estate (mentre durante l’inverno giocavo a pallavolo) ma declinavo sempre, per quella mia solita paura del nuovo. Alle superiori nuove sfide, con due compagni di classe: con uno in particolare ricordo una serie di vittorie piuttosto lunga, e mai interrotta, che forse ha contribuito alla formazione di suo complesso di inferiorità nei miei confronti, di cui poi venni a sapere in seguito. In realtà quei risultati dipendevano ben poco da me: lui tentava di tirare fortissimo tutte le palline, colpendone anche molte in salto, tentando di imitare i professionisti visti in tv. Mi bastava rimandarla di là per fare punto.

In quinta superiore, la grande decisione: basta pallavolo, mi iscrivo a tennis. Al primo allenamento scoprii due cose decisive: che per colpire di rovescio bisogna cambiare impugnatura (ora non so come avessi fatto a colpire fino ad allora, e più probabilmente spesso non facevo affatto) e che gli allenamenti di tennis sono noiosissimi. Cesti di diritto, cesti di rovescio, cesti di servizio, cesti di volè. E, peggio, un ambiente ben diverso da quello di uno sport di squadra come la pallavolo: poche chiacchiere, pochi commenti, poche espressioni, poche reazioni, nessuna discussione. Ma, ancora, provai la sensazione di essere abbastanza portato, dato che riuscivo a giocarmela con ragazzi che giocavano da anni. Il maestro mi proponeva di giocare i tornei del circolo alla domenica, ma a me, abituato a giocare partite di pallavolo di infimo livello ma comunque “ufficiali”, quest’idea di partite tra soci di tutte le età mi deprimeva abbastanza, soprattutto dovendo fare i conti con la sveglia alla domenica. L’anno dopo il maestro non mi richiamò, chissà perché.

Poi anni di partite con amici, un torneo del CUS, con un 4-6 strappato ad un giocatore, tante sfide con un collega ostico, la voglia crescente di fare qualcosa di più. Prima che mamma pallavolo tornasse a rapirmi, e a farmi male.

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